Titolo originale: My name is Lucy Barton - 2016
Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, una donna vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni. Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell'Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, «ciao, Bestiolina», perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia. Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. La donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d'ospedale. Lí la parola rassicura perché avvolge e nasconde. Ma è nel silenzio, nel fiume gelido del non detto, che scorre l'altra storia. Quella di un'infanzia brutale e solitaria, di una miseria umiliante, di una memoria tanto piú dolorosa perché non condivisa. Oltre la finestra, le luci intermittenti del grattacielo Chrysler, emblema di grandi aspirazioni nella Grande Mela degli anni ottanta, insieme all'alternarsi del sonno e della veglia e all'avvicendarsi delle infermiere dal nomignolo fiabesco, scandiscono il passare di un tempo altrimenti immobile. Ma il tempo passa. L'isola d'intimità di quei cinque giorni d'ospedale non si ripeterà nella vita di madre e figlia. Molti anni piú tardi la donna è una scrittrice di fama. Ha scelto la parola al silenzio, dopotutto, perché è cosí che può raccontare anche quella storia d'amore. Un amore invalido, mezzo afasico, ma amore senza dubbio. Dalla sua insegnante di scrittura ha appreso che «ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola». La donna si chiama Lucy Barton, e questa è la sua. (www.anobii.com)
"Esiste un incessante giudizio in questo mondo: come facciamo a garantire che non ci sentiamo inferiori ad un altro?"
Ho dovuto fermarmi un attimo e riflettere su questo libro prima di buttare giù un'opinione.
Il libro, in sè, non ha una trama particolare. In pratica conosciamo Lucy attraverso i suoi pensieri relativi al passato (suo e familiare); ciò si alterna ai racconti che le fa la madre.
Quello che è lampante è il gelo tra queste due donne. Ad un certo punto Lucy chiede a sua madre di dirle che le vuole bene. La madre non lo dice e non lo dirà mai. Tuttavia ha fatto centinaia di km in un paese sconosciuto per restare al suo capezzale, quindi sicuramente le vuole bene.
Il "non detto" è ciò che permea gran parte del romanzo: il "non detto" nel dialogo tra le donne, perchè parlano di altre persone ma non di sè stesse; il "non detto" sulla famiglia, non si entra nel dettaglio di cosa è successo, la storia tocca solo alcuni argomenti delicati ma non li approfondisce; l'assenza del marito vicino alla moglie in ospedale. Le cose non dette in passato e che ancora non vengono dette nel presente, semplicemente vengono accennate, sfiorate, ma subito si parla d'altro.
La famiglia di Lucy era poverissima. A scuola i bambini li deridevano dicendo che la loro famiglia faceva schifo. Ma Lucy trova nello studio un suo personale riscatto per uscire da quella situazione.
"I libri mi davano qualcosa. E' questo che penso. Mi facevano sentire meno sola. E' questo che penso. E mi dicevo: scriverò libri e le persone si sentiranno meno sole!"
Alcune immagini mi sono rimaste particolarmente impresse. Il bidello che lascia Lucy dentro la scuola finchè non deve proprio chiudere affinchè lei stia al caldo. La gentilezza degli estranei, dei professori che ben capiscono la situazione disagiata di Lucy. Il padre che mangia la mela contro voglia perchè Lucy ha i denti troppo piccoli e non ci riesce, e non si può buttare via. Il padre che è tormentato dal senso di colpa per aver ucciso due nazisti in guerra. Il padre che urla improperi al figlio "frocio" ma che poi si addormenta stringendoselo al petto. La madre che "sa" (tipo veggente), senza che nessuno le dica nulla, che Lucy ha avuto una figlia, che Lucy avrà problemi col matrimonio, che Lucy comunque guarirà. La madre che, quando Lucy viene portata via nella notte per fare una tac urgentissima, riesce a trovare dove è l'ambulatorio, perchè "ha una lingua e la sa usare".
La narrazione, che scorre abbastanza lineare nella prima metà (circa) del libro, tuttavia diventa decisamente molto frammentata in seguito. Diventa una serie di ricordi "casuali" in ordine sparso, infilandoci anche un gay pride e l'attentato delle torri gemelle. Ci sono alcune pagine molto tristi, lo ammetto, mi hanno commossa. L'immagine della famiglia che, anche se "sbagliata", nonostante tutto rimane radicata dentro ogni componente è molto bella.
"Ripensavo a come noi cinque avessimo avuto una famiglia decisamente malata, ma mi rendevo conto di come le radici profonde di ciascuno fossero avvinghiate al cuore di tutti gli altri"
Mi trovo molto in difficoltà ad esprimere un giudizio, perchè quando ho chiuso il libro è vero che mi ha lasciato tanti "spunti" ma è anche vero che non mi ha dato un dispiacere finirlo. Boh.
Mio voto: 7 / 10