“Non sono l'eroe della
mia storia. E a essere precisi neppure il cantore. Anche se gli
avvenimenti cui ho assistito hanno sconvolto il corso, fino ad allora
di scarso interesse, della mia esistenza, anche se continuano ad
influenzare pesantemente il mio comportamento, il mio modo di vedere”
In questo libro si intrecciano due storie. La prima è un'autobiografia di Perec, orfano di padre a quattro anni (il padre è morto per una pallottola vagante) e di madre a sei (deportata ad Auschwitz); sballottato tra collegi durante la guerra e poi adottato dagli zii. Scritto sul filo di una memoria che manca, che ha tante lacune, che lui cerca di colmare affidandosi ad alcune foto per ricordare momenti della sua infanzia privi di connessione. “Quel periodo si distingue soprattutto per l'assenza di punti di riferimento: i ricordi sono frammenti di vita sottratti al vuoto”.
La seconda storia è un
racconto inventato dallo stesso bambino a dodici anni, dove racconta
di un'isolotto della Terra del Fuoco in cui la vita è totalmente
dedita allo sport, inteso come competizione, dove la gente è
sottoposta a privazioni e soprusi in nome dell'esasperazione della
vittoria, comunque sempre in mano a decisioni anche arbitrarie dei
giudici di gara.
“Ho dimenticato le
ragioni che, all'età di dodici anni, mi hanno spinto a scegliere la
Terra del Fuoco per impiantarci W; a dare un'estrema risonanza al mio
fantasma ci hanno pensato i fascisti di Pinochet: oggi, parecchi
isolotti della Terra del Fuoco sono campi di deportazione”.
È un libro complesso. Le due storie sembrano scorrere parallele senza capire da cosa sono legate. Quella ambientata a W è anche decisamente noiosa in alcuni tratti; è terribilmente contorto seguire la spiegazione delle regole delle varie gare sportive, al punto che le leggevo abbastanza frettolosamente. L'accostamento ai campi di concentramento viene abbastanza naturale con lo scorrere della lettura, soprattutto quando la storia di questa isola dedita allo sport vira introducendo il fatto che, nonostante le vittorie, i giudici di gara potessero arbitrariamente cambiare le sorti e che gli atleti venivano tenuti praticamente alla fame. Insomma, la metafora si capisce bene. Resta il fatto che ho chiuso il libro senza averci capito molto e per questo rimango molto perplessa, soprattutto quando entra in scena Otto Apfelstahl.
Non so quindi che voto
dare ad un libro simile... appena l'ho chiuso gli avrei dato un 4, ma
ripensandoci credo gli darò la sufficienza, quantomeno per la sua
particolarità che probabilmente, per mia colpa, non riesco a capire
fino in fondo.
Mio voto: 6/10.
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