lunedì 12 ottobre 2015

Un mattino a Irgalem - Davide Longo


Titolo originale: un mattino a Irgalem (2001)

Etiopia, 1937. Pietro, avvocato torinese, si ritrova col grado di tenente, inAfrica per una missione spinosa: difendere un uomo che tutti vogliono morto. Il sergente Prochet, condottiero dei cosiddetti gruppi esploratori, ha sgozzato, squartato, devastato. Due pattuglie inviate nel deserto per recuperarlo sono svanite nel nulla. Ora è solo un personaggio scomodo, chiuso in una buia cella di Addis Abeba. E non dice una parola. Pietro tenta di aprire un varco nel silenzio ostinato di Prochet, per alcuni un eroe della guerra che ha dato all'Italia un impero, secondo i più "un matto, una bestia, uno che l'Africa gli ha fatto male".
Scortato da un “ragazzino dagli occhi azzurri, in una divisa cachi troppo grande”, incalzato dai superiori, che vogliono il caso chiuso al più presto. Accompagnato dalle partite a scopa e dalle conversazioni con il tenente medico Viale, gay e amico di vecchia data rifugiatosi nell'altipiano per non incappare nell'intransigenza fascista.
La vampata di passione per Teferi, splendida “donna d'ambra” figlia del ciabattino, non lo distoglie dal ricordo nostalgico delle fughe amorose con Clara, simbolo della bella vita torinese.
Ma... perché hanno affidato proprio a Pietro quel caso a cinquemila chilometri dal suo Paese?
Si sale sul treno polveroso dei militari, al primo capitolo, e fra una sigaretta fumata “stretta” da Pietro e un ruvido paesaggio africano, non si scende fino all'epilogo.(da: copertina)

Davide Longo è molto bravo nel calarci tra i militari e il senso di disagio che prova questo avvocato militare che da Torino viene spedito in Etiopia per salvare un sergente che è già condannato prima del processo. Si sente addosso la polvere della città, l'odore di fango quando piove.
Le descrizioni del romanzo sono molto belle, essenziali ma coinvolgenti. Il linguaggio in genere è abbastanza asciutto, pochi fronzoli, eppure riesce perfettamente ad essere descrittivo.
La storia, secondo me, parte molto bene. Il viaggio in treno dei soldati che sono quasi euforici. Pietro invece che è tormentato dai dubbi e dalle riflessioni su Clara, una donna sposata che frequenta a Torino.
Poi però tutto diventa un po' più piatto. Ci troviamo in un mondo in cui le cose in realtà non possono essere cambiate. Pietro capisce che Prochet è in realtà stata una pedina dei superiori che hanno sfruttato la sua innata violenza per tagliare teste. Prochet stesso sa che non serve che si difenda, e infatti passa gli incontri con l'avvocato stando seduto a terra e guardando il muro.
Nel frattempo, Pietro si invaghisce di una donna chiamata Teferi, che purtroppo è già la donna di un altro militare, Sancho. Qui Pietro si lascia andare ad un impulso improvviso e inatteso, forse l'unico colpo di scena nella storia. Ma quando Pietro pensa di poter tornare alla sua vita si rende conto che il destino gli ha giocato un brutto scherzo.
La lettura è stata piacevole ma mi rimane una sensazione strana del libro. La storia nel complesso è tutta molto fatalistica, un po' troppo “le cose dovevano andare così”. Parte con uno stile descrittivo molto piacevole, ma ad un certo punto sembra voglia creare della suspance che non riesce a creare. Prochet è insalvabile. Quello che ha fatto quel mattino nel villaggio è raccapricciante, ma per esempio non viene spiegato che fine hanno fatto le squadre che lo sono andate a cercare. Non c'è nessuno che lo conosce in caserma e quindi nessuno che possa parlare di lui. Solo verso la fine appunto viene raccontata la storia del bambino. Verso la fine, Pietro stesso viene colto dal raptus della violenza, se vogliamo “mitigato” dal desiderio di salvare Teferi probabilmente. E sembra quasi che lui stesso venga “punito”.
La vera domanda che non trova risposta è “perché hanno affidato proprio a Pietro quel caso a cinquemila chilometri dal suo Paese?”. A questo non si trova risposta.
Mio voto: 6 e mezzo / 10


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