Titolo originale: un mattino a Irgalem (2001)
Etiopia,
1937. Pietro, avvocato torinese, si ritrova col grado di tenente,
inAfrica per una missione spinosa: difendere un uomo che tutti
vogliono morto. Il sergente Prochet, condottiero dei cosiddetti gruppi
esploratori, ha sgozzato, squartato, devastato. Due pattuglie inviate
nel deserto per recuperarlo sono svanite nel nulla. Ora è solo un
personaggio scomodo, chiuso in una buia cella di Addis Abeba. E non
dice una parola. Pietro tenta di aprire un varco nel silenzio
ostinato di Prochet, per alcuni un eroe della guerra che ha
dato all'Italia un impero, secondo i più "un matto, una bestia,
uno che l'Africa gli ha fatto male".
Scortato
da un “ragazzino dagli occhi azzurri, in una divisa cachi troppo
grande”, incalzato dai superiori, che vogliono il caso chiuso al
più presto. Accompagnato dalle partite a scopa e dalle conversazioni
con il tenente medico Viale, gay e amico di vecchia data rifugiatosi
nell'altipiano per non incappare nell'intransigenza fascista.
La
vampata di passione per Teferi, splendida “donna d'ambra” figlia
del ciabattino, non lo distoglie dal ricordo nostalgico delle fughe
amorose con Clara, simbolo della bella vita torinese.
Ma...
perché hanno affidato proprio a Pietro quel caso a cinquemila
chilometri dal suo Paese?
Si
sale sul treno polveroso dei militari, al primo capitolo, e fra una
sigaretta fumata “stretta” da Pietro e un ruvido paesaggio
africano, non si scende fino all'epilogo.(da: copertina)
Davide
Longo è molto bravo nel calarci tra i militari e il senso di disagio
che prova questo avvocato militare che da Torino viene spedito in
Etiopia per salvare un sergente che è già condannato prima del
processo. Si sente addosso la polvere della città, l'odore di fango
quando piove.
Le
descrizioni del romanzo sono molto belle, essenziali ma coinvolgenti.
Il linguaggio in genere è abbastanza asciutto, pochi fronzoli,
eppure riesce perfettamente ad essere descrittivo.
La
storia, secondo me, parte molto bene. Il viaggio in treno dei soldati
che sono quasi euforici. Pietro invece che è tormentato dai dubbi e
dalle riflessioni su Clara, una donna sposata che frequenta a Torino.
Poi
però tutto diventa un po' più piatto. Ci troviamo in un mondo in
cui le cose in realtà non possono essere cambiate. Pietro capisce
che Prochet è in realtà stata una pedina dei superiori che hanno
sfruttato la sua innata violenza per tagliare teste. Prochet stesso
sa che non serve che si difenda, e infatti passa gli incontri con
l'avvocato stando seduto a terra e guardando il muro.
Nel
frattempo, Pietro si invaghisce di una donna chiamata Teferi, che
purtroppo è già la donna di un altro militare, Sancho. Qui Pietro
si lascia andare ad un impulso improvviso e inatteso, forse l'unico
colpo di scena nella storia. Ma quando Pietro pensa di poter tornare
alla sua vita si rende conto che il destino gli ha giocato un brutto
scherzo.
La
lettura è stata piacevole ma mi rimane una sensazione strana del
libro. La storia nel complesso è tutta molto fatalistica, un po'
troppo “le cose dovevano andare così”. Parte con uno stile
descrittivo molto piacevole, ma ad un certo punto sembra voglia
creare della suspance che non riesce a creare. Prochet è
insalvabile. Quello che ha fatto quel mattino nel villaggio è
raccapricciante, ma per esempio non viene spiegato che fine hanno
fatto le squadre che lo sono andate a cercare. Non c'è nessuno che
lo conosce in caserma e quindi nessuno che possa parlare di lui. Solo
verso la fine appunto viene raccontata la storia del bambino. Verso
la fine, Pietro stesso viene colto dal raptus della violenza, se
vogliamo “mitigato” dal desiderio di salvare Teferi
probabilmente. E sembra quasi che lui stesso venga “punito”.
La
vera domanda che non trova risposta è “perché
hanno affidato proprio a Pietro quel caso a cinquemila chilometri dal
suo Paese?”. A questo non si trova risposta.
Mio
voto: 6 e mezzo / 10
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