Titolo originale: Storia della mia ansia (2018)
“Un pomeriggio di tre anni fa, mentre stavo sul divano a leggere, un'idea mi ha trapassata come un raggio dall'astronave dei marziani. Vorrei raccontare così l'ispirazione di questo romanzo, ma penso fosse un'idea che avevo da tutta la vita. "Sappiamo già tutto di noi, fin da bambini, anche se facciamo finta di niente" dice Lea, la protagonista della storia. Ho immaginato una donna che capisce di non doversi più vergognare del suo lato buio, l'ansia. Lea odia l'ansia perché sua madre ne era devastata, ma crescendo si rende conto di non poter sfuggire allo stesso destino: è preda di pensieri ossessivi su tutto quello che non va nella sua vita, che, a dire il vero, funzionerebbe abbastanza. Ha tre figli, un lavoro stimolante e Shlomo, il marito israeliano di cui è innamorata. Ma la loro relazione è conflittuale, infelice. "Shlomo sostiene che innamorarci sia stata una disgrazia. Credo di soffrire più di lui per quest'amore disgraziato, ma Shlomo non parla delle sue sofferenze. Shlomo non parla di sentimenti, sesso, salute. La sua freddezza mi fa male in un punto preciso del corpo." Perché certe persone si innamorano proprio di chi le fa soffrire? E fino a che punto il corpo può sopportare l'infelicità in amore? Nella vita di Lea improvvisamente irrompono una malattia e nuovi incontri, che lei accoglie con curiosità, quasi con allegria: nessuno è più di buon umore di un ansioso, di un depresso o di uno scrittore, quando gli succede qualcosa di grosso” (goodreads)
Premetto che se non fosse per il gruppo di lettura, non avrei mai letto un libro con questo titolo. E la cosa assurda è che ci ho trovato di tutto ma veramente poca ansia.
Credevo che il libro fosse in parte autobiografico, invece pare che la Bignardi abbia smentito che sia così (nonostante anche lei sia stata malata).
Non è un libro che ho letto tutto d'un fiato. Ho trovato molto belle le parti in cui Lea riflette per conto suo; ho trovato tenera la storia tra lei e Luca, anche se non immaginavo un finale diverso; ho trovato poco interessanti le parti di Lea, Shlomo e il resto della famiglia (e poi, sinceramente, mi sono un po' persa con tutti i nomi che vengono citati e chi è parente con chi).
E' uno di quei libri che a caldo mi fanno dire "mah". Lo stile narrativo è sicuramente leggero, con tratti di ironia; questo sicuramente alleggerisce l'argomento. E tuttavia non riesco ad apprezzarlo nel suo insieme ma solo in alcune parti sparse.
Tra le parti che mi hanno più colpito ci sono sicuramente i racconti delle cure, la stanchezza di provare dolore fisico, il rigetto per gli aghi, il tormento dei medici che non riescono a trovare la vena. E anche la difficoltà di accettare la protesi, la caduta dei capelli, il non guardarsi allo specchio per non volersi vedere.
Il rapporto col marito è assurdo.
"Da ragazza lo sapevo che per venire amati bisogna prima amare se stessi. Avevo sotto gli occhi mia madre, i suoi inutili sacrifici, la sua ingombrante dipendenza da mio padre, da mio fratello, da me. Volevo essere diversa: indipendente, forte, felice. Quand’è che invece sono diventata come lei? Che cosa mi ha fregato? Quanto tempo è che sono in guerra, io? Trent’anni? Il cancro non è che l’ultima battaglia, e non è stata la più difficile. È stata quella contro me stessa la battaglia più lunga e cruenta. Sono io il mio peggior nemico.
Ma ecco che improvvisamente sono l’orfana nella soffitta, ho solo un mozzicone di matita e una candela, e non aver nulla da perdere mi regala una sensazione inebriante di forza e libertà. Il nuovo monologo, il matrimonio, i figli adolescenti, la malattia: tutte nuove battaglie.
Ora che mi sento sola nella foresta, libera di ricominciare, il futuro è tornato.
Ora che ho perso tutto, l’illusione di essere immortale, di essere giovane, di essere amata, ora che sono sola e affamata e coraggiosa come una belva nella giungla, ora sì che sono libera."
Mio voto: 6 e mezzo / 10
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